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Se credete di stare bene sul lavoro perché fate ciò che vi dicono ma dentro avete un urlo di cambiamento, questo è il Vostro libro.
Negli ultimi tempi abbiamo molto sentito parlare di #quittok, il trend portato avanti dai millennials che si filmano mentre si licenziano da lavoro. Il senso dell’hashtag è una critica al mondo del lavoro odierno, che spinge allo stremo, spreme, annulla l’individuo in nome del bene della famiglia che sarebbe l’azienda, del profitto, della gloria, della promessa di una promozione o della minaccia di un mancato rinnovo o demansionamento; il senso che è passato su parecchie testate giornalistiche è “In che guai si sono messi questi millennials mostrandosi in questa azione? Chi li vorrà assumere al netto di questi video?”. Presto detto che in questa riflessione rientra tutta la logica del lavoro attuale, non ci si chiede cosa abbia portato in burnout una generazione intera e come il mondo del lavoro potrebbe cambiare per offrire delle condizioni vivibili e non alienanti, ma ci si indigna per lo scempio di rifiutare una condizione che peraltro li rende privilegiati. Il lavoro non deve essere un privilegio, la cui etimologia dal latino è “legge per il singolo”: questo porta alla distopica visione di essere degli eletti, e che in quanto tali, addirittura si debba ripagare il grande dono riservatoci. Ecco che la dipendente di Twitter dorme sul pavimento del suo ufficio, che si lavora da casa, che si lavora in malattia, che togliamo tempo a ciò che siamo veramente per identificarci con la nostra mansione. Ecco che la famiglia aziendale di cui si parlava prima diventa la reale famiglia - quella che ci siamo scelti non la frequentiamo se non nelle ore notturne, che dedichiamo a dormire oppure a controllare le ultime mail da inviare. Ecco che facciamo sempre più di quello che saremmo tenuti a fare, perché fare il nostro a questo punto diventa una prova di svogliatezza, di ozio. Lo diceva Pietro Minto in Come annoiarsi meglio, che l’ozio non è concesso, che ora vanno monetizzate anche le passioni e l’idea di prendersi del tempo per azioni disinteressate è considerato assurdo, non produttivo, inutile. Ecco che i colpevoli sono i lavoratori esauriti, perché la vita va così, se hai delle spese devi lavorare e ringrazia che hai un lavoro perché c’è anche chi non ce l’ha o che viene schiavizzato, pure, perché non ci si può permettere di esaurirsi, esaurirsi è da deboli, svogliati, oziosi, scansafatiche che causano una battuta d’arresto alla produttività innescando un domino di problemi che quindi derivano tutti dal lavoratore esaurito. Il primo articolo della Costituzione italiana dice “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.” Il lavoro di cui si parlava nel ‘47 non era certo un lavoro sottopagato e vessante nei confronti dell’individuo: era un’idea di lavoro ricco di dignità, immaginata da donne e uomini che avevano fatto la Resistenza e che vi vedevano all’interno un intento comunitario, solidale, di arricchimento per sé stessi e gli altri. Quando però il popolo viene impegnato h24 a pensare a come realizzare le aspettative di un datore opprimente, la sovranità non gli appartiene più. Non ne ha tempo, non ne ha più le forze. Del resto, quando per promuovere un’iniziativa commerciale si mettono a paragone la Resistenza e la Liberazione con lo shopping il 25 aprile, sancendo così l’interiorizzazione dello svilimento del fondamento della nostra democrazia, significa che molti di quei valori si sono cancellati nella nostra quotidianità. «Ma da fuori non si vede, da fuori non si sente La gente non capisce e spesso, se non sempre, fraintende Chiudi gli occhi e vai, vai Chiudi gli occhi e vai, vai»
Un libro necessario per capire quali sono i meccanismi che regolano il mondo del lavoro e i principi che reggono la società della performance. È un sollievo leggere un libro sul lavoro e su di noi così ben strutturato